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GUIDA TURISTICA DEL PIANETA TERRA: UN'ESILARANTE AVVENTURA DALLA NAMIBIA ALLA LIGURIA
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GUIDA TURISTICA DEL PIANETA TERRA: UN'ESILARANTE AVVENTURA DALLA NAMIBIA ALLA LIGURIA
Qui sotto alcune delle foto più affascinanti dalla navigazione a vela da Genova alla Sicilia, e un divertente e interessante diario di viaggio
pieno di informazioni e aneddoti che descrive l'intero itinerario.
Se non le avete ancora lette, date un'occhiate alle informazioni di viaggio e alla mappa
dell'itinerario qui: www.wildtrips.net/italia-vela.htm.
"Quindi
avresti l’idea folle di partire in barca a vela da Genova e
raggiungere la Sicilia toccando le isole e i tratti di costa più
belli del Tirreno? Navigando per 800 miglia e due settimane su
una barca a vela di 10 metri?"
"Esatto.”
"Mi
sembra un’ottima idea. Andiamo.”
Così, nell’agosto del
2013 degli amici e io ci lanciammo in questa impresa. La barca
doveva essere portata a Trapani e questa vacanza-trasferimento
era una grande occasione.
Partimmo da Genova
al mattino, dopo avere fatto cambusa. Un vento leggero ci
spinse fino a Chiavari e Lavagna. Fu un piacere, come sempre,
passare davanti al verde promontorio di Portofino e alle
sue belle scogliere. Ma tutto diventa più bello quando visto dal
mare, persino i quartieri iper-costruiti di Genova e Rapallo.
Il giorno dopo
lasciammo il Tigullio e facemmo rotta verso la Toscana.
Purtroppo dovemmo ricorrere al motore, anche se quel poco vento
che soffiava bastava per gonfiare le vele e farci risparmiare un
po’ di benzina. La velocità massima è 6 nodi quindi ci vuole una
certa pazienza. Ma chi ha fretta di smettere di galleggiare? Io
no di certo.
Per una lunga
navigazione, viaggiare di notte è necessario. Ciò consente di
macinare miglia e di poter sfruttare il giorno con più calma,
fermandosi in baie belle o spettacolari per tuffi, snorkeling,
relax e camminate lungo la costa.
S'alzò un po' il
vento. Così, quando alle 20 il sole iniziò ad arrossare,
spiegammo le vele, stappammo una bottiglia di vino bianco e ci
prendemmo un panoramico aperitivo. Dietro di noi, in lontananza,
la costa ligure, davanti solo mare, la barca andava e noi la
lasciavamo andare.
Dopo uno splendido
tramonto e una discreta cena iniziammo i turni per la notte. Due
restavano svegli ad aggiustare la rotta, a controllare eventuali
altre barche e ad ammirare le stelle. Gli altri dormivano.
Essere svegliati alle 2 di notte con la frase “Ehi, è il tuo
turno” non è mai un piacere. Ci si sente un po’ come dei
condannati a morte chiamati al patibolo, diciamo. Poi, però, ci
si siede sotto il cielo stellato, si odora il mare, si
chiacchiera, e il tempo passa.
Di notte, uno degli
spettacoli più notevoli e, per i novellini, inaspettati è quello
delle nuvole di plancton fosforescente che passano sotto
la barca. Sono semplicemente delle palle luminose che risaltano
nel mare nero, ma a me, personalmente, ipnotizzano.
Un’altra
caratteristica della navigazione notturna è la difficoltà a
percepire le distanze. La luce di una nave può sembrare
lontanissima, e invece ce la si ritrova all’improvviso a cento
metri dalla prua. Per navigare c’è il GPS e pongo le mie
congratulazioni postume ai marinai di una volta, quelli che
usavano il sestante e le stelle. Per evitare altre imbarcazioni
e vari possibili problemi, però, una conoscenza marinaresca è
necessaria anche oggi. Non siate imprudenti, please.
Anche l’alba in
vista dell’isola di Gorgona non fu male. Sembrava il replay del
tramonto della sera prima, ma riprodotto al contrario.
Arrivammo a Capraia
verso l’ora di pranzo, dopo essere stati colti da un bel vento
che ci aveva spinto al traverso. L’isola, bellissima, è già
descritta qui.
Il giorno dopo
veleggiammo fino all’isola d’Elba. Ci fermammo a nuotare
a Cavo prima di procedere, sotto spinnaker, verso Punta Ala.
Al riparo del promontorio ancorammo e facemmo un bagno,
purtroppo abbreviato dall’accorrere di numerose meduse
evidentemente interessate a conoscerci. Era tardo pomeriggio,
quindi stappammo una bottiglia, coniammo il motto “Un uomo un
vuoto”, perché una bottiglia di vino a testa al giorno è, in
barca, la razione raccomandata, e aperitiveggiammo. Così va
vissuta la crociera a vela, a mio avviso: fondersi col mare e
con gli elementi e godere dei piccoli grandi piaceri della vita.
Cenammo e poi, attorno alla mezzanotte, salpammo verso l’isola
del Giglio. Un’altra navigazione notturna svolta senza
intoppi.
Stava albeggiando
quando raggiungemmo il Giglio, di cui potemmo ammirare il paese
e le brulle colline, oltre che, purtroppo, lo scafo semi-affondato
della Costa Concordia, la nave da crociera incagliata nel 2012.
Continuammo al largo
del bel promontorio dell’Argentario fino alla selvaggia
Giannutri, poi ancora verso sud-est. Vedemmo i primi delfini
della vacanza (meno simpatici del solito, devo rimproverarli) e
arrivammo nel pomeriggio a Riva di Traiano, vicino a
Civitavecchia, un grosso porto, poco attraente, dove facemmo
rifornimento di vino, acqua e carburante (in ordine d’importanza).
Veleggiammo nel tardo
pomeriggio fino a Marinella. Ancorammo per fare un tuffo davanti
alle sue belle villette sul mare. Mangiammo panzanella,
un tipico piatto da navigazione costituito da gallette di pane
bagnate con olio, acqua e aceto e condite con pomodori, cipolle
e, in realtà, qualsiasi cosa ci si voglia mettere: tonno, olive,
acciughe, capperi... a seconda di quanto si sia affamati, e in
genere lo eravamo molto. Devo menzionare che la panzanella si
sposa bene col vino bianco?
Ripartimmo per
un’altra navigazione notturna, notando in lontananza il chiarore
delle luci di Roma. Dopo avere ammirato l’ennesima alba
coloratissima arrivammo a Palmarola, la prima delle isole
Pontine, nonché un autentico capolavoro della natura.
Scogliere bianche e colorate, acque limpidissime, baie e scogli
e anfratti… L’isola è completamente disabitata, eccezion fatta
per un piccolo ristorante sulla spiaggia e qualche casetta,
scavata nella roccia di tufo, affittata ai turisti. (C’è, mi
dicono, anche la villa delle sorelle Fendi, le stiliste, che
però non capisco come facciano al mattino ad andare a fare la
spesa. Poverine, avranno una vita davvero grama).
Ormeggiammo nella
splendida baia e, indossata la maschera, nuotammo per un’ora
ammirando pesci e fondale. E’ incredibile come si riducano le
dimensioni del mondo che c’interessa, in questi casi. In genere
si parte per un viaggio dicendo: “Voglio visitare quella città,
quella regione, quello stato.” Ma in una baia così selvaggia e
bella, l’obiettivo era visitare quello scoglio, quel punto di
mare blu, quella spiaggetta minuscola. E non era accontentarsi,
anzi, ogni scoglio ci sembrava diverso, un mondo a sé,
egualmente meritevole d’essere esplorato fino in fondo.
Così, c’infilammo
in un buco tra le rocce e ci sorprendemmo a nuotare in una sorta
di piscina naturale sotterranea. Poi ammirammo un specie di
gambero bianco che nuotava tranquillo, delle occhiate, delle
castagnole (pescetti neri, poco appetitosi), delle spaccature
tra gli scogli che piombavano giù a profondità inquietanti, dei
prati d’alghette colorate, dei ricci…
C’era da perdersi, in
quei dettagli.
Col tender,
raggiungemmo poi la spiaggia, dove esplorammo quei curiosi buchi
scavati nel tufo trasformati in case, un po’ come facevano a
Pitigliano (Toscana) oppure in Cappadocia (Turchia).
Ripartimmo nel
pomeriggio, costeggiando la splendida isola, sempre più
impressionati. Arrivammo a Ponza quando il sole stava
quasi per tramontare e ormeggiammo nella baia di Chiaia di
Luna, che era praticamente deserta.
Per fortuna ci sono le foto perché, altrimenti, mi perderei in un’altra lunga lista
di aggettivi entusiastici, procurandovi sonnolenza. Io mi limito
a dire che da una parte c’era il tramonto sul mare, tra gli
scogli, dall’altra c’era questa infinita parete di roccia
verticale ai cui piedi si stendeva una lunga spiaggia. A
sinistra e a destra c’erano le solite scogliere bianche e quelle
colorate. Le eruzioni vulcaniche e gli smottamenti che
avevano formato queste isole erano autori di autentici
capolavori. Non conosco artisti bravi quanto la natura –
anche se, lo ammetto, le creazioni dei vulcani sono casuali e
talvolta pure un tantino catastrofiche.
Cenammo mentre si
faceva buio e la baia da azzurra diveniva rosa, rossa e infine
nera. Dopo cena, in tre prendemmo il tender e decidemmo di
remare per quattrocento metri fino alla spiaggia. Al buio, era
un’esperienza abbastanza forte, con i riflessi della luna che
brillavano talvolta sulla schiuma delle onde, rilevando la
presenza di uno scoglio vicino o della spiaggia in lontananza.
Una volta arrivati, ci accorgemmo d’avere dimenticato le
ciabatte e tornammo indietro a prenderle. Ripartimmo e
finalmente sbarcammo sulla battigia.
L’accesso alla
spiaggia di Chiaia di Luna è vietato per il rischio di caduta
massi dalla scogliera, quindi è sempre deserta. Altrimenti, c’è
un modo per raggiungerla dal paese di Ponza: un tunnel nel
tufo lungo duecento metri, scavato dai romani 2000 anni fa,
che buca la scogliera fino a raggiungere l’altro lato dell’isola.
Muniti di torcia,
c’infilammo quindi nel tunnel, con un vago senso di
claustrofobia, e dopo pochi minuti di cammino (che sembrarono
lunghissimi) spuntammo all’aria aperta. Tirammo un sospiro di
sollievo e camminammo su una strada asfaltata fino a raggiungere
il lungomare di Ponza paese. C’erano un porticciolo, casette
colorate, gelaterie e turisti (quindi al mondo esistevano altre
persone oltre a noi: ce ne stavamo dimenticando). Non vivemmo
una serata particolarmente vivace, stanchi dopo una giornata
iniziata con una navigazione notturna e continuata nuotando e
remando, ma fu una bella avventura.
Era mezzanotte quando
percorremmo nuovamente il tunnel. Per entrare dovemmo scavalcare
un cancello: se spostandosi dalla spiaggia al paese l’accesso
sembrava aperto e lecito, il percorso inverso era apparentemente
bloccato.
Sulla spiaggia
ritrovammo il canotto e rientremmo alla barca. Quella giusta,
fortunamente, nonostante il buio. Avevamo sonno. Buonanotte.
L’alba a Chiaia di
Luna non è affatto male, anzi, stupisce e commuove.
Salpammo
l’ancora e ci dirigemmo verso Ventotene, distante venti
miglia, a sud-est. Dopo una bella veleggiata ormeggiammo in
porto, stavolta, in modo da girare comodamente per il paese e
fare rifornimento di cibo e… beh, vino, ovviamente. La
particolarità di questa bellissima isola è il porto romano,
scavato nel tufo, con moli e bitte ricavate dalle roccia duemila
anni fa. La cittadina è assai pittoresca.
Ci sono alcune
spiagge, molto frequentate, al contrario di Palmarola e Chiaia
di Luna. Nonostante la gente, sono notevoli perché, facendo
snorkeling, si possono esplorare le vasche subacquee scavate dai
romani per allevare murene e altri pesci. Era tutto talmente
sorprendente che si rimaneva senza parole… per fortuna perché
sennò sott’acqua avremmo bevuto. Bastava indossare la maschera e
con due bracciate ci si ritrovava tra nuvole di occhiate, vasche
naturali, acqua ovviamente limpida, una stella marina… andateci,
per favore.
Passammo una notte
tranquilla in porto (ah, allora è così che si dorme… finalmente).
Ripartimmo presto verso la nostra prossima meta, Procida. La
raggiungemmo in fretta, dopo avere costeggiato Ischia, grazie a un
vento abbastanza sostenuto, quindi decidemmo di veleggiare
lungo il periplo di Procida. Ormeggiammo poi davanti alla
baia di Corricella, un paese di vecchie case colorate,
appiccicate e ammucchiate, con da un lato il promontorio
roccioso di Terra Murata e il suo castello. Era un capolavoro.
Estasiati da tanta meraviglia ci tuffammo in mare prima e
nella panzanella poi.
Lasciammo Corricella
a malincuore e andammo ad ormeggiare nel porto di Procida,
sull’altro lato dell’isola. C’era un caldo infernale, ma il
posto era molto bello.
Per cena camminammo
fino a Corricella, dove mangiammo all’aperto con la pasta alle
alici più buona (e pesante) del basso Tirreno. Mangiando fuori,
s’impiega poco a notare le differenze tra nord e sud Italia.
Vedevamo le porzioni nei ristoranti aumentare, i prezzi
diminuire, le ricevute fiscali scomparire. Un aspetto negativo,
quest’ultimo, che non toglie nulla al calore e alla simpatia
della gente, per carità. E’ solo un’abitudine, peraltro diffusa
anche al nord, e che manderà definitivamente in rovina l’Italia
molto presto… insieme ai numerosi altri problemi del nostro
Paese.
Dormii in barca
all’aria aperta, per sopportare meglio il caldo. Partimmo
presto, il giorno dopo, diretti verso sud. Veleggiammo con
piacere fino a Capri, poi il cielo iniziò a inscurirsi.
Il vento calò e dovemmo dare motore, decisi a scappare da
eventuali temporali. Passammo davanti alla costiera amalfitana,
dove pescammo un bonitto e una tonnella (io non sono in grado né
di prendere né tantomeno di uccidere un pesce, ma per fortuna
avevamo un amico esperto a bordo). Nel tardo pomeriggio
arrivammo a Salerno e ormeggiammo nella nuova Marina di
Arechi. Qui ci fu un cambio d’equipaggio, con qualche amico che
partì e altri che arrivarono. Io restai, ovviamente.
Nel frattempo, fummo
colti da un violento temporale. Per fortuna eravamo
tranquillamente ormeggiati in porto. Cenammo in barca col pesce
appena pescato, sfilettato e marinato, e con una sostanziosa
pastasciutta.
Il giorno dopo il
timore di ulteriori temporali ci convinse a restare in porto.
Come ammazzare il tempo? Prendemmo una decisione improvvisa:
raggiungere Amalfi in autobus.
Ci trovammo così
sulla tortuosa e striminzita strada che segue la Costiera
Amalfitana. Fu un viaggio di un’ora e mezza che durò una vita,
tra panorami spettacolari e curve a cinque all’ora. Amalfi è
un piccolo capolavoro, con la sua chiesa e le sue case lungo
la costa. C’è una barca pubblica che per due euro porta alle
vicine spiagge ai piedi delle scogliere. La prendemmo e,
attratti dal vento, decidemmo di fermarci dove affittavano
windsurf. Appena uscii, boma in mano, bello come il sole,
qualcuno – un dio beffardo – spense il vento, che per un’ora non
superò gli 0.5 nodi d’intensità. Io rimasi così immobile sulla
tavola in mezzo alla baia, fino a quando una leggera brezzolina
mi riportò in spiaggia e riconsegnai l’attrezzatura. Allora, il
vento riprese. Eolo maiale.
Dopo una panoramica
birra riprendemmo il battello e tornammo ad Amalfi. Da qui,
rientrammo a Salerno in traghetto, non potendo sopportare di
sprecare un’altra vita in bus. Fu una gita da turisti tedeschi,
ma ci permise di godere di panorami indimenticabili, anche
grazie al fatto che i temporali previsti non s’erano in realtà
fatti vedere.
La sera io e un amico
restammo in giro per Salerno in modo da godere di un po’ di vita
sociale dopo giorni (o erano anni) di navigazione. La città ci
sorprese per la vivacità delle sue strade: numerosi negozi, bar,
ristoranti… Dopo un aperitivo esplorammo i bei vicoli, pieni di
gente e di ragazzi. Cenammo in una gastronomia riempendoci di
pesce fresco e bevendo una bottiglia di falanghina. Spendemmo
appena 9 euro a testa. E pure i bar erano estremamente
economici: una bottiglietta di birra o un chupito andavano via
per un euro (con ricevuta!). Ovviamente, c’erano anche locali
più chic e costosi.
Fu una serata allegra
che ci lasciò una bella impressione di Salerno, una città vivace
dove la gente sa spassarsela.
Per tutta la vacanza
furono predominanti i venti da nord, con intensità tra i 5 e i
15 nodi, e anche il mattino successivo tramontana fu. Partimmo
all’alba in direzione sud, a vele spiegate, a una buona velocità
di 7-8 nodi.
Subito a sud di
Salerno c’è un ampio golfo con alle spalle la piana di
Battipaglia. Ancora più a sud ricompaiono affascinanti scogliere.
E’ un tratto di costa poco famoso, ma comunque piacevole e non
troppo costruito (si parla tanto degli abusi edilizi nel
Meridione, ma le coste del Nord Italia non sono messe meglio,
anzi).
Arrivammo nel tardo
pomeriggio alla Baia del Buon Dormire, protetta da Capo
Palinuro. Era un bel golfo, in cui infatti c’erano
ormeggiate una dozzina di barche. Ci godemmo la solita cena
spettacolare sull’acqua e una buona dormita (come suggerito dal
nome della baia). Il mattino dopo facemmo un bagno corroborante
esplorando anfratti e scogli e spiaggette, quindi proseguimmo
verso la Baia degli Infreschi, spettacolare ma troppo
frequentata (ad agosto capita di trovare traffico anche in mare,
ogni tanto). Bastò spostarsi di un chilometro, comunque, per
tuffarci indisturbati sotto una scoscesa costa selvaggia.
Dopo qualche ora di
piacevoli trastullamenti marini (tuffi e relax e abbronzatura e
camminate sulle rocce), salpammo verso le Eolie (che sono descritte con dovizia di particolari anche qui. Mangiando
bevendo scherzando e dormendo facemmo passare le settanta miglia
di lunga navigazione. Un leggero vento ci spingeva quando,
verso le 4 di notte, vedemmo una luce rossa in cielo, in
lontananza: era la Sciara del Fuoco di Stromboli, la scia di
lava eruttata dal vulcano sempre attivo. Nella tenue luce
dell’alba, quel rosso luminoso divenne meno evidente, ma
Stromboli non perse fascino. Era emozionante navigare a vela, in
assoluto silenzio, ai piedi del cono vulcanico, ammirandone le
nere pareti magmatiche che arrivano al mare.
A Stromboli c’è un
paesino di case bianche. Viene da domandarsi perché qualcuno ci
viva, tra un’eruzione e l’altra. Il punto è che proprio grazie
al vulcano il terreno è molto fertile. In più, oggi c’è il
turismo.
Stromboli e Panarea
sono separate da dieci miglia d’acqua, che percorremmo a motore
(erano le Eolie, ma il vento era finito). Non dovevamo cazzare
la randa, lascare il cunningham o poggiare, ma anche solo
ammirare le due isole e i coni vulcanici di Lipari e Salina in
lontananza era un’occupazione degna e gradevole.
A Panarea
ormeggiammo a una boa e scendemmo a terra col canotto. Vedemmo
cose strabilianti. Case bianche in mezzo ad alberi fioriti,
mare verde e celeste e trasparente, colline brulle, da Far West,
con cactus e fichi d’India; e poi i resti di un villaggio
preistorico appollaiato su una piccola penisola con le sue
baiette dall’acqua tanto limpida che si potevano contare le
pietre sul fondale.
Prendemmo un forte respiro ed emozionati
lasciammo il sentiero che fa il periplo dell’isola e scendemmo a
fare un tuffo. Una mezz’ora di snorkeling ci permise di scoprire
pesci, alghe arancioni e qualche piccola medusa che, grazie alla
maschera, schivammo abilmente.
Se non lo sapete,
v’informo che i fichi d’India sono molto saporiti, ma toccarli è
una delle idee peggiori che possano venirvi in mente, ancora
peggio che offrire la cena a un lottatore di sumo. Sono infatti
muniti di piccole, irritanti spine trasparenti (sto parlando dei
fichi d’India, non dei sumotori), che s’infilano dappertutto.
Essendo praticamente invisibili, è difficilissimo toglierle e si
trasmettono più facilmente della peste bubbonica: se un uomo
innocente usa un guanto per raccogliere dei fichi d’India, poi
lo poggia su una sedia, quindi un altro tocca quella sedia, poi
stringe la mano a qualcuno… zac!, un’epidemia di spine di fichi
d’India si diffonde.
Cenammo in barca,
ormeggiati nella bella baia, e come frutta divorammo dei fichi
d’India. Poi ci trovammo tutti a grattarci, e ancora oggi, a
pensarci, mi sento pungere.
Il giorno dopo
lasciammo la bella Panarea e navigammo verso Lipari, la più
popolosa delle Eolie. La costeggiammo per ammirare il panorama,
quindi c’infilammo nel canale che separa quest’isola da Vulcano
e, tornando verso nord-ovest, ormeggiammo presto in una bella
baia di Lipari, con vista su un faraglione. Bellissimo,
capolavoro, spettacolare, eccetera eccetera.
Dopo un lungo bagno
ripartimmo costeggiando le scogliere occidentali di Vulcano,
sotto il suo colorato cratere fumante. Ormeggiammo in
un’altra baia, praticamente deserta (mentre quelle più rinomate
erano molto frequentate).
Una lunga remata sul tender ci portò a
fare il bagno sotto una scogliera nera. L’acqua era limpida, il
fondale mosso, con archi di roccia sotto cui nuotare in apnea e
scogli che facevano da tana a piccoli pesci. Fu uno dei più bei
momenti di snorkeling della vacanza.
Era tardo pomeriggio
quando partimmo per un’altra lunga navigazione serale, direzione
Palermo. La notte fu illuminata dai lampi di un temporale poco
lontano. Ne avremmo fatto volentieri a meno, ma non ci bagnammo
né fummo investiti da trombe d’aria. Arrivammo all’alba a
Palermo, che costeggiammo.
Ammirammo i monti rocciosi alle
spalle di Mondello e continuammo in direzione di
Castellamare del Golfo. La raggiungemmo nel pomeriggio, alla
velocità di oltre 8 nodi, spinti da una bell’aria da nord-est.
Ormeggiare a
Castellamare è un vero piacere per il diportista: si tratta di
un riparo sicuro e moderno da cui si può ammirare la vecchia
cittadella, col suo castello sul mare e le case arroccate
sulla collina.
Cenammo in un
delizioso ristorante – come è noto, la cucina siciliana è
qualcosa di paradisiaco. Siccome il nostro tavolo era nel mezzo
di un vicolo frequentato, potemmo anche osservare le bellezze
femminili siciliane: delle centocinquanta donne che passarono
durante la cena, almeno 143 erano tra il carino e lo splendido.
Penso che anche gli uomini non fossero male, ma non me ne
intendo.
Da Castellamare a
Trapani, era l’ultimo giorno di navigazione. Passammo davanti
alla caratteristica Scopello e alla bella Riserva dello Zingaro,
poi alla turistica San Vito Lo Capo, famosa anche per il
Cous-Cous Fest. Vedemmo delle vecchie saline, quindi
costeggiammo scogliere e spiagge. Ci fermammo per un tuffo
sotto un monte dolomitico, il promontorio di Monte Cofano,
davanti alla località balneare di Cornino. Non sapevamo cosa ci
facessero le Dolomiti in Sicilia, forse erano in vacanza. Alle
spalle dell’abitato, c’erano enormi miniere di marmo.
Continuando a
costeggiare, passammo davanti alla tonnara di Bonagia. La
pesca dei tonni m’incuriosisce. Primo, se si pensa a quanti ne
vengano pescati tutti i giorni nel mondo ci si stupisce di come
possano non essersi ancora estinti. Si riproducono in modo
incredibile, ma simili mattanze un po’ dispiacciono. L’altro
aspetto interessante è che nelle tonnare tirare su i pesci era
un rischioso gioco d’abilità e forza, coi tonni che formavano un
mucchio spaventato e inferocito e che venivano arpionati al volo
quando saltavano. Il pescatore che arpionava un tonno da 70
chili nel momento sbagliato veniva trascinato nel mucchio e
faceva una gran brutta fine.
Un bel vento (sempre
dai settori settentrionali) ci spinse per le ultime miglie.
Arrivammo in vista delle Egadi e la nostra meta,
Trapani, era poco lontana. La costa ora era piatta, tanto
che mezzo chilometri al largo ci poteva essere appena una decina
di metri di fondo. Un buon uso di GPS, carte e portolani è
consigliato per evitare le secche.
Il porto di Trapani
ha un unico ingresso per navi commerciali e diportisti.
Chiamammo la capitanera per identificarci (strana formalità
introdotta per evitare imbarcazioni clandestine) e ormeggiammo
nel nuovo “parcheggio” della nostra barca a vela di dieci metri.
Eravamo arrivati, dopo 800 miglia di navigazione per le coste
italiane. Stappammo una bottiglia. La sera passeggiammo per la
vivace Trapani, dove cenammo a suon di cous-cous. I ristoranti
erano pieni e il servizio lentissimo, perciò mangiare con la
stanchezza della navigazione addosso fu l’ultimo grande sforzo.
La serata si concluse
coi fuochi d’artificio. Per un attimo pensammo che i trapanensi
stessero festeggiando il nostro arrivo; in realtà, la Madonna di
Trapani ci stava rubando la scena. Scoprimmo infatti che il 16
agosto era festa cittadina. Andammo a dormire.
L’impresa era
compiuta. La barca era in Sicilia e noi sopra di essa, sani
e salvi. Sentivamo una sorta di simbiosi con la navigazione e il
mare, che è una cosa bellissima anche se può causare dipendenza.
Ma ciò che provavamo più di tutto erano il senso di
soddisfazione, il gioioso spirito di squadra e la forte
convinzione in noi stessi. Eravamo pronti a nuovi viaggi, a
nuova vita e a nuovi venti.
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